Giuseppe Gabrielli

Area dedicata all'Aviazione Storica. Aerei vintage, vecchie Compagnie e imprese del passato

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Giuseppe Gabrielli

Messaggio da i-daxi » 14 luglio 2009, 12:19

Ho trovato la sua storia in questo sito e mi faceva piacere pubblicarla:

Non molti sanno che la città di Caltanissetta ha dato i natali ad uno dei protagonisti della storia dell’aeronautica mondiale, ad uno dei più famosi progettisti di aeromobili che ha così caratterizzato lo sviluppo della storia del volo umano. Giuseppe Gabrielli nasce a Caltanissetta il 26 febbraio 1903, da qui si allontana in tenera età (circa sette anni) per iniziare la propria vita, anche dal punto di vista scolastico, a Torino. Raggiunta l’età dell’università, studia Ingegneria Industriale Meccanica presso la Scuola di Ingegneria dove si laurea il 31 luglio del 1925, e nello stesso tempo ottiene una borsa di studio da parte della Fondazione Marco Besso, grazie alla quale può recarsi in Gemania presso la Technische Hochschule di Aquisgrana dove consegue la seconda laurea di Doctor Ingenieur alla scuola del famosissimo Prof. Theodor von Kàrmàn, uno dei padri delle discipline legate allo studio dei moderni principi dell’aerodinamica, con una ricerca originale sulla rigidezza torsionale delle ali a sbalzo.




Tornato in Italia nel 1927, la sua carriera ha un duplice sviluppo: in campo accademico ed in quello industriale. Egli infatti viene assunto allo stabilimento aeronautico Piaggio di Finale Ligure, dove collabora con Giovanni Pegna, e nel 1928 gli viene affidato l’incarico di assistente universitario nel corso di Costruzioni Aeronautiche, dove nel 1930 diviene titolare della medesima cattedra. Nel 1929, nello stabilimento di Finalmarina, Gabrielli rivela già le sue innate qualità, riprogettando la versione completamente metallica del famoso idrovolante Savoia-Marchetti S 55 (il protagonista delle note trasvolate atlantiche in formazione di Italo Balbo) fino ad allora costruito in legno. Primo esempio di aeroplano italiano realizzato in metallo, la costruzione a titolo sperimentale, per conto della Regia Aeronautica e con la collaborazione di Alessandro Marchetti (che gli consegnò personalmente i progetti originali della versione precedente), di alcuni esemplari di tale velivolo dimostrò che il peso a vuoto era di 530 kg inferiore e la robustezza maggiore di quello originale in legno. IL successo di questa realizzazione lo pone all’attenzione degli ambienti industriali e militari dell’epoca e gli procura la possibilità di cimentarsi, pur continuando la sua attività di docente, nel campo della progettazione vera e propria essendo assunto dalla FIAT nel 1931 a capo di un proprio ufficio tecnico progettativo; è l’inizio di una lunga collaborazione con la nota azienda nazionale che si protrarrà sino agli anni ’80.

Il primo progetto è il FIAT G.2 (1932) piccolo aeroplano civile da trasporto per 6 persone con innovazioni tecnologiche quali ala monoplano completamente a sbalzo e fusoliera a guscio, seguono il G.5 ed il G.8 da addestramento (1933-1934), il più veloce velivolo bimotore da trasporto passeggeri dell’epoca il G.18V (1937), il G.12 (1940) largamente impiegato durante la guerra come trasporto militare

Nel 1937 realizza il primo caccia italiano ad ala bassa interamente metallico, il FIAT G.50, che per circa 4 anni (insieme al Macchi C 200 costituirà il nerbo della difesa caccia italiana), e nel 1942 il G.55 che rappresenterà il più veloce e potente caccia italiano della II Guerra Mondiale, sicuramente all’altezza, se non superiore, ai più quotati e famosi caccia alleati del periodo.
L’immediato dopoguerra vede l’Ing. Gabrielli, già eletto membro del Consiglio Direttivo della FIAT e direttore della divisione tecnica progettuale della stessa, come il protagonista della ripresa e del rilancio dell’attività aeronautica italiana, allora praticamente inesistente.
Modelli e velivoli come il G.212 (1947) trasporto civile passeggeri, il G.46 (1947) ed il G.59 (1949) aerei da addestramento militari, permettono di ricostruire le sorti e la fama dell’industria aeronautica italiana.Il G.80 (1951), e la sua versione da addestramento militare G. 82 (195, costituiscono un ulteriore primato: essi rappresentano il primo esempio
di aeroplano a getto a propulsione con turboreattore (il primo aereo a reazione) di progettazione e costruzione interamente italiana
Nel 1954 la N.A.T.O. bandisce un concorso, il più completo e restrittivo sul piano delle direttive tecniche che fosse mai stato organizzato sul continente europeo, per un caccia tattico leggero a reazione, per il quale oltre alle ovvie qualità di volo, i velivoli in concorso dovevano dimostrare la loro attitudine ad operare da superfici semipreparate, richiedere facile e veloce manutenzione, tempi minimi per la sostituzione del motore e grande semplicità per le attrezzature di appoggio a terra. La FIAT con il progetto presentato da Gabrielli, il G.91 (1954), vince il concorso sulla carta e le prove di valutazione in volo dei prototipi prevalendo su competitori temibili, tra i quali francesi ed inglesi, e rappresentando, ancora oggi, il più grosso successo commerciale dell’industria aeronautica nazionale; ne saranno realizzati circa 800 esemplari e sarà adottato, oltre che ovviamente dall’Italia, dalla Germania e dal Portogallo, dopo essere stato valutato anche da nazioni quali l’Austria, la Svizzera, la Grecia, e gli U.S.A.

Agli inizi degli anni ’60 sotto la spinta della N.A.T.O., il Gabrielli indirizza le proprie ricerche sulle problematiche della realizzazione dei velivoli a decollo ed atterraggio verticale, elaborando brevetti originali con interessanti soluzioni tecniche, come il G.91S, il G.95/4, il G.95/6, che non saranno comunque realizzati. Agli inizi del 1970 vede la luce il prototipo del G.222, aereo da trasporto tattico dalle entusiasmanti qualità nel decollo ed atterraggio corto, che attualmente equipaggia, dopo più di 20 anni di onorato servizio, due stormi da trasporto
della nostra Aeronautica militare. Nel 1982 viene nominato, all’età di 79 anni, Presidente della FIAT AVIO e continua a collaborare con il Politecnico di Torino come titolare della cattedra di Progettazione d’Aeromobili: attività accademica che non abbandonerà mai, a dimostrazione della volontà di trasmettere alle nuove generazioni di ingegneri quanto più possibile dell’esperienza accumulata.
L’attività di Gabrielli, infatti, non è stata solo progettuale o finalizzata alla realizzazione dei suoi velivoli, come potrebbe essere facilmente dimostrato dai suoi 141 progetti di cui ben 62 hanno raggiunto la produzione in serie, ma si allarga alla ricerca scientifica, alla partecipazione a commissioni di studio italiane ed estere destinate alla conquista dello spazio (come sottolineato dalle sue 200 circa pubblicazioni), alla partecipazione ed organizzazione di
numerose e delicate missioni all’estero per trattare accordi di collaborazione industriale di produzione inerenti la nostra aeronautica civile e militare e che hanno visto l’acquisizione di progetti quali il De Havilland Vampire, il North American F 86K o il Lockheed F 104G prodotti in Italia sotto licenza. Giuseppe Gabrielli si identifica, quindi, con la produzione aeronautica italiana alla quale ha dato lustro e risultati apprezzati in campo internazionale. La sua doppia attività, di progettista e di docente universitario, ha permesso di concretizzare reali collaborazioni fra le Università, le Industrie e gli Enti di Ricerca creando i presupposti per un reale sviluppo economico ed intellettuale. Giuseppe Gabrielli muore a Torino, ad 84 anni, il 29 novembre 1987.
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to 3.doc
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Re: Giuseppe Gabrielli

Messaggio da i-daxi » 14 luglio 2009, 12:21

fiat G.80 e G.82.
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Prototipo del monoreattore per.doc
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Re: Giuseppe Gabrielli

Messaggio da i-daxi » 14 luglio 2009, 12:36

Fiat G.46 e Fiat G.59.
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Aereo da addestramento Fiat 1.doc
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Re: Giuseppe Gabrielli

Messaggio da i-daxi » 14 luglio 2009, 12:44

Fiat g-12, Fiat g.222.
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Prototipo dell.doc
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Re: Giuseppe Gabrielli

Messaggio da i-daxi » 14 luglio 2009, 12:55

Fiat G.2
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Monoplano da trasporto Fiat G.doc
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Re: Giuseppe Gabrielli

Messaggio da i-daxi » 14 luglio 2009, 13:01

Fiat G.212, G.12, G.46, G.50, G.55, G.18.
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Torino 1958.doc
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Aereo da caccia Fiat G.doc
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g12.doc
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Re: Giuseppe Gabrielli

Messaggio da i-daxi » 14 luglio 2009, 13:08

Il Fiat G.91:

http://www.gmncaltanissetta.it/CD_ROM/gmn/gab/g91.htm

(Scusatemi ma stamani il mio Pc và a carbone :x :x ).
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g91.jpg
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Re: Giuseppe Gabrielli

Messaggio da galland » 14 luglio 2009, 15:18

Riprendo il tema dell'interessante topic di I-DAXI riportando integralmente il capitolo dedicato al G.91 dal volume di memorie di Giuseppe Gabrielli “Una vita per l’aviazione” Bompiani, Milano, 1982

IX. L’AVVENTURA DEL G.91
Nella primavera del 1954 la NATO, in base agli studi sui problemi della difesa dell'Europa occidentale, condotti dai servizi operativi e tecnici dello SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers in Europe), decise di invitare i paesi europei aderenti al Patto atlantico a concorrere alla realizzazione di un progetto di aeroplano leggero d'appoggio tattico corrispondente a certe esigenze, e in particolare alle necessità europee.
Le caratteristiche tecniche ed operative richieste erano riassunte in un programma di concorso di carattere segreto che le competenti autorità di ciascuno dei paesi interessati fecero conoscere ai costruttori aeronautici, tecnicamente e industrialmente capaci di affrontare il problema.
Il nuovo velivolo, oltre a installazioni speciali d'armamento doveva avere un peso ridotto; doveva avere la capacità di decollare e di atterrare su terreni cosiddetti "semipreparati" e di dimensioni molto minori di quelli utilizzati per gli aeroplani da caccia del momento.
In effetti le piste d'atterraggio, necessarie per questi velivoli, costavano cifre considerevoli e, in caso di guerra, sarebbero state un obiettivo molto facile da colpire. La riduzione di peso e, per conseguenza, delle dimensioni, doveva portare una riduzione di costi, consentendo alle aeronautiche militari delle varie nazioni dell'alleanza di aumentare il numero dei propri aeroplani. Infine era imposta una facile manutenzione, un rapido rifornimento di combustibile e di vario munizionamento (cartucce, razzi, bombe, ecc.)
La soluzione del problema si presentava difficile nell'insieme. Insomma occorreva un turbogetto di dimensioni ridotte e di caratteristiche appropriate. Fortunatamente la società inglese Bristol aveva già concretizzato il progetto del turboreattore Orpheus che corrispondeva allo scopo.
I principali costruttori europei presentarono dieci progetti che, dopo approfonditi esami tecnici da parte di una speciale commissione dell'AGARD presieduta da von Kàrmàn e della quale facevano parte numerosi tecnici di diverse nazionalità, passarono alla verifica di differenti sottocommissioni specializzate. L'analisi dei progetti durò alcuni mesi. Alla fine vennero presi in considerazione cinque aeroplani: il G.91 presentato dalla FIAT; l'inglese Folland "Gnat"; i francesi Breguet "Taon'; il Dassault "Etendard" e il Sud Aviation "Barodeur".
Il G.9i era un progetto completamente nuovo basato esattamente sulle prescrizioni della NATO; gli altri tre erano derivati, con opportune modifiche, da prototipi che le società Folland, Breguet e Dassault avevano già in costruzione, mentre il Baroudeur era basato su un concetto interessante e alquanto utopistico, poiché aveva eliminato il carrello di atterraggio e decollava e atterrava su pattini.
Per circolare in aeroporto il velivolo veniva trasportato su un apposito carrello, che però doveva essere spostato per ferrovia o a mezzo rimorchio stradale quando l'aeroplano si trasferiva in volo da un aeroporto all'altro.
Questo velivolo rimase allo stato di prototipo e non fu poi presentato al concorso al quale parteciparono quindi solo quattro velivoli. Il 3 giugno 1955 furono ordinati alla FIAT tre prototipi del G.91 e una preserie di ventisette aeroplani, condizionata, quest'ultima, all'esito definitivo delle prove pratiche dei quattro velivoli concorrenti.
L'ordine dei tre prototipi veniva a coronare gli sforzi fatti dalla FIAT e riconosceva il livello che la nostra società aveva raggiunto tra i costruttori aeronautici più progrediti.
La fiducia che la NATO aveva testimoniato fu ampiamente corrisposta: a poco più di un anno dall'ordine, il 9 agosto 1956, il nostro prototipo fece con successo il primo volo all'aeroporto di Caselle.
Collaudatore era il pilota Riccardo Bignamini, dottore in matematica, già ufficiale dell'Aeronautica militare, ben conosciuto anche all'estero negli ambienti aeronautici, perché si era classificato al primo posto all'Empire-Test-Pilot's-School di Farnborough conquistando il trofeo McKenna.
L'approntamento dell'aereo era avvenuto a tempo di record e aveva richiesto uno sforzo considerevole, reso possibile dalla capacità e dal grande entusiasmo che animava tutti gli uomini della FIAT Aviazione. Il velivolo si dimostrò maneggevole e le sue capacità di decollo e di atterraggio su terreni erbosi furono superiori a tutte le aspettative. Era stata determinante l'adozione di un carrello speciale, ideato ad hoc, che possedeva "gambe" snodate, capaci di assorbire le azioni parallele al suolo. Esse assumevano un valore cospicuo in conseguenza delle asperità del terreno. Avevo deciso di adottare quel tipo di carrello, basandomi su una vasta esperienza col tipo di carrello a "gamba" diritta, da me ininterrottamente adottato nei precedenti caccia G.50, G.55 e G.59. Il lungo impiego di tali velivoli aveva mostrato che le gambe del carrello, dotate del sistema ammortizzatore solo lungo il loro asse, in qualche caso avevano manifestato — dopo il decollo — noiose vibrazioni, provocate dalla componente tangenziale al suolo. Le sollecitazioni venivano assorbite egregiamente dalla elasticità della struttura ed erano perfettamente tollerate in quegli aeroplani dal carico alare relativamente basso.
Mi era apparso quindi indispensabile per il gravoso impiego del nuovo aereo di passare, per il G.91, all'uso di un carrello concepito in modo da rispondere più elasticamente alle componenti tangenziali al suolo. In realtà il comportamento di questo carrello fu perfetto e ha contribuito certamente a favorire la vittoria del G.91 al concorso. Va detto che il carrello fu realizzato dalla ditta francese AIessier su nostri disegni.
Un altro elemento importante e, secondo me decisivo per la preferenza del G.91, fu quello delle armi di lancio montate con le rispettive cassette di munizionamento su pannelli laterali della fusoliera. Ciò consentiva il rapido rifornimento con la sostituzione dei pannelli con altri intercambiabili, già completi di armi e munizioni. Questi accorgimenti, oltre al sistema da noi adottato per la rapidissima sostituzione del motore, attirarono l'attenzione degli specialisti e suscitarono l'apprezzamento e i consensi verso il G.91.
Le prove di messa a punto del velivolo si svolsero a ritmo serrato e nei primi giorni di febbraio del 1957 Bignamini, sentendosi padrone della macchina, fece un'emozionante affondata, raggiungendo Mach i. Mi trovavo a Roma e appresi la notizia al telefono. Me la dette lo stesso Bignamini subito dopo l'atterraggio. Quando tornai, quest'uomo generoso ed entusiasta mi fece trovare sul tavolo d'ufficio una foto del G.91 con la dedica che rievocava l'avvenimento.
Pochi giorni dopo, il 26 febbraio, Bignamini era andato in volo per delle prove esplorative sulla stabilità del velivolo al flutter di coda. Eseguiva passaggi di livello a diverse quote e a velocità gradualmente crescenti per registrare la risposta del velivolo alle sollecitazioni che egli con appositi strumenti induceva sugli impennaggi orizzontali. Il pilota era in costante collegamento con il campo e comunicava i particolari di ogni esperimento. Concluso il programma di prove Bignamini si apprestava a rientrare quando le comunicazioni radio si interruppero. Dopo 20 minuti di silenzio, di trepidazione e di vane ricerche radio, l'ansia diventò angoscia; i piloti che erano in ascolto al campo, temendo una sciagura, decisero di avvertirmi. Erano le 13.30 quando il capopilota, comandante Mar-san, mi telefonò a casa. Pensavo che, come al solito, volesse darmi notizie del rientro di Bignamini e dell'andamento delle prove, invece era quella terribile notizia; ma mentre io chiedevo ansiosamente i dettagli dell'accaduto la comunicazione si interruppe. Era una chiamata interurbana e alla voce di Marsan si frappose quella di Bignamini. Mi sentii scoppiare il cuore di gioia mentre quella cara voce mi raccontava, come se fosse cosa da nulla, che l'apparecchio aveva manifestato vibrazioni; che la coda si era disintegrata e che egli all'ultimo momento si era dovuto lanciare col seggiolino eiettabile da una difficile posizione.
Bignamini era sceso col paracadute presso Cavour, un paesino del Piemonte, ma nell'impatto col suolo si era procurato alcune fratture alle vertebre. L'avevano raccolto i carabinieri; lui, prima di farsi portare all'ospedale, aveva voluto telefonarmi per esprimermi il rammarico per la perdita del velivolo. Un'ora dopo Bignamini era ricoverato alla Clinica Fornaca di Torino dove con i miei collaboratori ero andato ad attenderlo. Durante la degenza il suo pensiero dominante era quello della ripresa dei voli col G.9i, ma ci volle qualche mese di gesso e di intense terapie prima che egli fosse dichiarato completamente guarito.
L'inchiesta sulle cause dell'incidente si svolse a ritmo accelerato col concorso dei tecnici militari. I rottami dell'apparecchio vennero sistemati in un capannone dell'Aeronautica d'Italia e furono esaminati diligentemente pezzo per pezzo.
Abbandonai ogni altra occupazione e per qualche settimana mi dedicai completamente alle indagini. Revisionai il progetto nelle parti che più mi sembravano sospettabili. Fu un lavoro immane e senza soste, mentre procedeva l'approntamento degli altri due prototipi. Fummo aiutati anche da alcuni tecnici militari americani e potei apprezzare la loro competenza e l'organizzazione di cui dispongono proprio nelle procedure per analizzare gli incidenti aviatori.
Apportai al progetto alcuni miglioramenti che mi sembravano comunque utili. Ma la causa del disastroso fenomeno si manifestò dopo pochi giorni, anche in base all'esame delle registrazioni della cosiddetta "scatola nera" di cui il velivolo era munito. Si era trattato di un flutter di coda sugli impennaggi orizzontali.
Per le prove a terra avevamo programmato una cellula completa del velivolo per esaminare e rilevare i suoi modi di vibrare e determinare quindi i fattori di sicurezza agli effetti del flutter, in tutte le condizioni.
Avevo a disposizione alcuni giovani e valenti ingegneri che avevo inviato tempo prima negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia perché si impadronissero dei metodi di prova e di prevenzione del flutter. Avevamo in costruzione modelli in similitudine dinamica da provare nelle gallerie del vento. Ma tutto ciò non aveva potuto essere completato prima dell'inizio dei voli di prova data la travolgente rapidità con cui si era dovuto procedere alla costruzione dei prototipi. Ora volevo assolutamente esaurire tutte le prove a terra prima di riprendere i voli. Purtroppo non potevo attendere l'approntamento delle nostre attrezzature che richiedeva troppo tempo e allora mi rivolsi altrove.
Sapevo che l'ONEIA (Office National d'Etudes et de Recherches Aérospatiales) aveva un dipartimento specializzato e una fama ben meritata di grande competenza e serietà. Pensai quindi di ricorrere a questa istituzione e telefonai a Parigi al presidente, professor Mauri-ce Roy. Roy era un amico e spesso ci incontravamo nelle riunioni del comitato esecutivo dell'AGARD di cui entrambi facevamo parte in rappresentanza dei rispettivi due paesi. Gli chiesi aiuto e lui, eminente scienziato docente alla Sorbonne e tecnico di vaglio, comprese immediatamente la situazione.
Dopo pochi giorni giunsero a Torino due grandi furgoni completamente attrezzati per il rilievo delle prove di flutter, e un folto gruppo di specialisti guidati dal responsabile del dipartimento di prove flutter dell'oNE1. In qualche settimana le prove a terra sul velivolo al vero erano già esaurite con esito soddisfacente e poco dopo potemmo riprendere le prove di volo col prototipo numero due. I test flights furono ultimati nella primavera 1957, giusto in tempo per presentarci, come era prescritto nei termini del contratto, a Brétigny dove si sarebbero svolte le prove di volo dei quattro velivoli concorrenti.
Il programma delle prove era lunghissimo e minuzioso. Comportava un'infinità di rilievi che andavano dalla pesata alla determinazione del baricentro, alle prove di rifornimento, a quelle di montaggio e di smontaggio, all'esame delle attrezzature a terra per i servizi inerenti alle varie operazioni che ogni casa costruttrice aveva presentato insieme al velivolo, alle prove di volo in tutte le configurazioni, alle prove di sparo e di sgancio delle bombe e dei serbatoi supplementari e così via.
I voli venivano compiuti da un team di piloti internazionali che si alternavano ai comandi dei diversi velivoli, mentre un team di tecnici internazionali elaborava le singole prove e redigeva i relativi rapporti. Una nutrita schiera di operai, specialisti e di ingegneri delle singole industrie forniva l'assistenza necessaria sotto la sorveglianza di una commissione internazionale.
Il programma di lavoro veniva redatto giorno per giorno e uno dei coefficienti più importanti della valutazione era quello della puntualità e della regolarità con cui il velivolo svolgeva il programma assegnato.
Tutto questo significò centinaia di voli e dopo i primi giorni tutti constatarono che la regolarità e la puntualità dimostrata dal G.9i era molto superiore a quella degli altri concorrenti.
Il Folland "Gnat" dopo alcuni inconvenienti fu ritirato dagli inglesi. Pertanto rimasero in lizza il G.91 e i due francesi Dassault e Breguet. La superiorità del G.91 si era manifestata evidente ma non si potevano arrischiare previsioni, perché poteva succedere di tutto in un programma così lungo e difficile, mentre da parte francese non mancavano certamente azioni di pressione sul piano diplomatico, che diventarono sempre più manifeste mano a mano che le prove procedevano con il vento favorevole per il G.91.
Anche negli ambienti del personale delle imprese costruttrici si era creata una atmosfera di rivalità e di diffidenza reciproca. Durante la notte la custodia dei velivoli era affidata ai militari, per ovviare ogni sospetto di sabotaggio. Ma mi venne raccontato che ogni sera i nostri bravi operai, prima di lasciare il loro G.91, mettevano in atto sistemi di sigillatura delle parti più delicate in modo da poter accorgersi di qualsiasi manomissione.
Vivemmo i quindici lunghi giorni di Brétigny in questo spirito di accesa rivalità, ma col più alto senso sportivo. Alla fine si ebbe la proclamazione del G.9i vincitore del concorso NATO.
Fu un periodo ricco di episodi. Ne ricordo uno, piuttosto curioso. Un giorno il G.91 era partito per compiere una delle missioni a lungo raggio stabilita sul programma. Qualche tempo dopo il suo decollo si vide comparire all'orizzonte un velivolo che sembrava il G.91 partito da poco e che si apprestava all'atterraggio.
L'équipe francese ne dedusse che la missione era fallita e cominciò a fregarsi le mani mentre noi osservavamo preoccupati le manovre dell'aereo. In effetti era un G.91, ma non quello del concorso. Era un secondo apparecchio che avevamo fatto venire come ricambio e che giungeva direttamente da Torino.
Intanto all'Aeronautica d'Italia, dal più modesto operaio agli ingegneri, ai tecnici, tutti seguivano con ansia le sorti del concorso e io, che ben valutavo quale grande influenza avrebbe avuto sullo sviluppo del velivolo una sua affermazione, accarezzavo l'idea di rischiare l'approntamento della preserie di ventisette velivoli prima ancora dell'esito finale.
Titubante esposi l'idea al professor Valletta che, come al solito, dopo avermi ascoltato, mi autorizzò non solo a procedere all'approntamento di tutti i materiali semilavorati per le strutture, ma a dare senz'altro il via alla costruzione delle attrezzature di montaggio dei principali componenti: ali, fusoliere, impennaggi. Ciò permise alla FIAT di partire avvantaggiata nel tempo per la produzione, quando ricevemmo l'atteso ordine di ventisette apparecchi.
Le francesi Dassault e Breguet avevano compreso che la partita non volgeva a loro favore e infatti Dassault e il suo direttore generale Vallière mi avvicinarono con molto tatto e cortesia e mi invitarono a colazione. A tavola mi esposero una loro idea: avremmo dovuto stabilire un accordo di collaborazione tra la FIAT e la Dassault nel caso di vittoria di uno dei nostri velivoli. C'era il fatto che l'aeroplano vincitore del concorso avrebbe dovuto obbligatoriamente essere adottato da tutte le nazioni della NATO, pertanto il mercato era veramente notevole.
Dassault, che ormai prevedeva una vittoria del G.91, cercava in qualche modo di premunirsi. Naturalmente l'accordo avrebbe dovuto essere segreto e rimanere tale. Aveva puramente un valore di intento il cui eventuale sviluppo sarebbe rimasto subordinato alle intenzioni e alle decisioni dei rispettivi governi. Ne riferii a Valletta. Egli prese tempo, ma non escluse la cosa. Dopo lunghi pourparlers che erano condotti mio tramite a nome della FIAT, si giunse a redigere un testo sul quale Dassault e Valletta furono d'accordo. Siccome eravamo ormai alla fine dell'anno, Dassault propose di siglare il documento a Montecarlo dove egli, come di consueto, trascorreva le feste di Capodanno. Il professor Valletta accettò l'invito e si recò con me a Montecarlo.
Dassault era un uomo politicamente impegnato, senatore e deputato con De Gaulle, era una delle personalità aeronautiche francesi più in vista e i suoi interessi finanziari e industriali si estendevano dalle banche ai giornali. Era proprietario, tra l'altro, di un settimanale illustrato molto diffuso, il Jours de France, il cui emblema spiccava a grandi caratteri luminosi sul tetto di una sontuosa villa situata al Rond-point dei Champs Elysées. Questa era la sede dove egli preferiva intrattenere i suoi ospiti e discutere i propri affari. Lì ebbi occasione di incontrarlo numerose volte e fui spesso invitato a colazione: era il massimo esponente dell'industria aeronautica privata e teneva testa con sempre maggior successo, per l'efficienza e la qualità della sua organizzazione e dei suoi prodotti, alle altre industrie come la Sud Aviation, la Nord Aviation e la Société Nationale de Sud-Ouest.
Apparentemente non aveva interessi nel campo motoristico dove dominavano la Gnome-Rhóne e l'Hispano-Suiza.
Prima della guerra Dassault era stato un modesto costruttore di velivoli militari e portava il nome di Bloch. Nel 1938 avevo visto per la prima volta un suo aereo da caccia esposto al Salone di Parigi. Era un monoplano a sbalzo con carrello retrattile che mi sembrò veramente modesto rispetto al G.50. Poi Dassault mise in costruzione un aereo civile quadrimotore che battezzò Languedoc, e scomparve per ragioni razziali. In un suo libriccino dal titolo Le talisman, pubblicato nel 1970, racconta la storia della sua vita e la sua fulminea ascesa dopo la guerra, quando si ripresentò in Francia col nome di Marcel Dassault. Narra che fu deportato in Germania e si salvò per puro miracolo. Riprese l'attività nel campo dei velivoli militari e cominciò la sua brillante carriera.
Io non conoscevo il Languedoc, ma subito dopo la guerra mi capitò di volare con tale aeroplano sulla linea Parigi-Londra dell'Air France. Ne ebbi una pessima impressione. Dotato di fusoliera strettissima e bassa, non potevo fare a meno di paragonarlo al mio G.12 che era una macchina di ben altra classe.
La produzione di Dassault nel dopoguerra aveva assunto invece un livello pregevole e una tecnica avanzata sia dal punto di vista aerodinamico sia sul piano costruttivo. Aveva reclutato tecnici di alto valore ed aveva creato efficienti officine che guidava con intelligenza e capacità. Ecco le ragioni della sua rinomanza.
Quando il G.91 venne dichiarato vincitore iniziò in Francia, soprattutto per opera di Dassault, una campagna contraria che mise radici anche negli ambienti militari della NATO. Per questo la standardizzazione che avrebbe dovuto svilupparsi automaticamente fu ostacolata da una serie di remore. Così avvenne in Grecia e in Turchia, mentre nazioni al di fuori della NATO, come la Svizzera e la Iugoslavia, manifestarono un fortissimo interesse per il G.91. La Iugoslavia non poté ricevere gli apparecchi che essa chiedeva con insistenza, perché da parte americana fu posto il veto per ragioni di sicurezza. La Svizzera, invece, poté disporre di due G.91. Era decisa a riprodurli sotto licenza. Gli aeroplani vennero impiegati sulle basi elvetiche alle cui caratteristiche ed esigenze l'apparecchio si adattava perfettamente. L'Officina federale di Emmen aveva studiato i piani di produzione e numerose missioni di tecnici svizzeri avevano frequentato i nostri stabilimenti e avevano espresso la loro preferenza per il G.91 rispetto a qualsiasi altro velivolo. Le forze aeree della vicina confederazione disponevano dei Vampire ormai obsoleti e carichi di ore di volo. I piloti svizzeri svolsero un programma intensivo col G.9i eseguendo missioni di fuoco ed esercitazioni con piena soddisfazione.
Sembrava che tutto fosse concluso, quando il Parlamento di Berna optò per il Mystère di Dassault. Questa decisione dei politici colse di sorpresa e scontentò gli ambienti militari. L'operazione si rivelò infatti infelice e qualche tempo dopo scoppiò uno scandalo. In esso erano implicati per corruzione la Dassault e alcuni alti ufficiali svizzeri, che furono poi condannati in tribunale. I francesi anche allora non avevano saputo perdere. La vittoria del caccia italiano era stata per loro una sconfitta nazionale. Si pensi che ci furono alcuni giornalisti aeronautici francesi che arrivarono a scrivere che la scelta del G.91 al concorso NATO era stata favorita da Kàrmàn. Anche un giornalista italiano — non so quanto in buona o cattiva fede — avanzò lo stesso sospetto.
Il discorso era assurdo, perché, a parte il fatto che Kàrmàn, con la commissione da lui presieduta, era intervenuto soltanto nella fase di esame preliminare dei progetti di massima, presentati nel 1954, una personalità di fama mondiale come lui non avrebbe mai potuto abbassarsi a oscure manovre per favorire chicchessia.
Dopo queste vicende apparve chiaro che la lettera di intento firmata da Valletta e Dassault a Montecarlo era servita solo come tranquillante per la FIAT e rimase a dormire nelle casseforti della ditta francese.
Anche l'Austria si interessò al G.91. Attraverso i canali diplomatici manifestò il suo desiderio di iniziare trattative per la fornitura di un certo numero di velivoli con l'intento di ottenere anche l'istruzione del personale addetto alla loro manutenzione e riparazione; i corsi avrebbero dovuto svolgersi presso le sue officine militari.
Eravamo sorpresi e lusingati per questa richiesta perché l'Austria non faceva parte della NATO. Mi recai perciò a Vienna e assistito dalla nostra ambasciata ebbi alcuni colloqui preliminari con le autorità militari austriache. Era la prima volta che visitavo la favolosa capitale del defunto impero austro-ungarico. Il suo fascino e la sua atmosfera romantica mi erano noti anche attraverso la lettura del libro autobiografico di Stefan Zweig Il mondo di ieri, ma dal vivo ricevetti da questa città un'impressione profonda ed incancellabile.
Nel corso dei colloqui con gli austriaci si manifestò l'opportunità di una presa di contatto diretta con Valletta. Così nel maggio successivo tornai a Vienna con lui. Gli incontri erano stati preparati dal direttore della Deutsche FIAT, grand'ufficiale Bonelli. Il ministro della difesa Graf ci manifestò la sua soddisfazione e confermò la decisione del suo governo di acquistare i G.91, tuttavia con molta circospezione fece comprendere che la conclusione dell'affare sarebbe stata facilitata se da parte del governo italiano vi fosse stata una mitigazione della pena inflitta al famigerato colonnello Kappler. Il professor Valletta manifestò la sua sorpresa per questo velato ricatto e pur riservandosi di informarne le autorità italiane, espresse nettamente la sua contrarietà a vincolare in qualsiasi modo le trattative in corso con un'eventualità del genere. Da quel momento non ci occupammo più della vendita dei G.91 all'Austria e tutto finì nel nulla.
Tornai a Vienna nel 1968 per la Conferenza delle Nazioni unite sull'esplorazione e sull'uso pacifico dello spazio.
Erano presenti studiosi di tutte le nazioni e vi andai come membro della delegazione italiana capeggiata dal professor Antonio Ambrosini, insigne docente di diritto aeronautico all'università di Roma. Una mattina — era il 21 agosto — a seduta già iniziata e nel buio della sala, mentre proiettavano alcune diapositive, presi il mio posto nel banco della delegazione italiana. Ambrosini che era arrivato prima di me mi sussurrò all'orecchio: "Ti avverto che alla fine di questa relazione i lavori saranno sospesi. I russi hanno occupato stanotte la Cecoslovacchia". Quando l'oratore concluse e si riaccesero le luci, lo speaker dette l'annuncio della sospensione dei lavori fino a nuovo ordine. L'impressione stampata sul volto di tutti era enorme. La nostra delegazione fu convocata dall'ambasciatore italiano che ci disse di attendere istruzioni sul da farsi, mentre egli esaminava la situazione in continuo contatto con Roma e col Ministro degli esteri austriaco Waldheim, lo stesso che poi sarebbe diventato segretario generale dell'ONU.
Nei corridoi della conferenza c'era grande agitazione; tutti ci domandavamo che cosa sarebbe successo e che cosa potevamo e dovevamo fare. Fu redatta una sdegnata dichiarazione di dissenso e di condanna, che l'ONU avrebbe dovuto inoltrare alle autorità sovietiche. Il documento fu approvato da tutte le delegazioni, escluse naturalmente quelle dell'Est.
Correvano le voci più disparate, non esclusa quella che i russi si apprestavano a invadere anche l'Austria. La frontiera con la Cecoslovacchia era stata chiusa e guarnita di truppe. La città, di solito tranquilla, era diventata animatissima; la gente si riversava nei negozi per fare approvvigionamenti. Qualcuno si domandava addirittura se non fosse il caso di partire subito da Vienna.
Per quella sera era in programma — offerto dal governo austriaco — un grande ricevimento al castello di Schiinbrunn. Nel pomeriggio la nostra ambasciata ci comunicò che il ricevimento avrebbe avuto luogo ugualmente e ci fu detto che le nazioni della NATO, pur aderendo all'invito, avevano dato istruzioni alle proprie rappresentanze di ignorare la delegazione russa, qualora si fosse presentata. Il ricevimento si svolse regolarmente, in apparenza come se nulla fosse avvenuto. Ci chiedevamo se i russi sarebbero intervenuti, quando, con leggero ritardo, comparvero compatti e numerosi, facendo finta di non accorgersi del loro isolamento.
Per il G.91 la Germania non aveva perso tempo. Dopo aver seguito, con particolare interesse, lo svolgimento del concorso, decise di equipaggiare la sua aeronautica col nostro aereo in una speciale versione che prevedeva, oltre all'equipaggiamento fotografico in prua, adattamenti particolari per l'armamento di lancio e di caduta. Ne nacque una configurazione denominata R4, frutto di lunghe consultazioni tecniche. Per le trattative venne a Torino il Ministro Strauss accompagnato dal Capo di stato maggiore dell'Aeronautica, generale Panisky, e da un folto gruppo di ufficiali piloti.
La missione del ministro aveva un carattere ufficiale e la presentazione in volo del G.91 si svolse a Caselle secondo un dettagliato programma stabilito in accordo con lo stato maggiore della nostra aeronautica. L'interesse e la soddisfazione della missione tedesca si manifestarono subito e senza reticenze. Dopo breve tempo concludemmo un accordo che comportava una fornitura iniziale da parte nostra e poi la produzione del velivolo in Germania sotto licenza. La firma del contratto d'acquisto del G.91 da parte tedesca avvenne a Coblenza l'11 marzo 1959 e la presentazione del primo velivolo costruito in Germania volò dall'aeroporto militare di Manching il 16 ottobre del 1961 alla presenza di Strauss.
I servizi tecnici dell'aeronautica tedesca organizzarono un anello di produzione in Germania al quale aderirono le principali aziende tedesche tra le quali la Dornier che assunse le funzioni di capo commessa.
La Germania ,allargò la propria produzione, compresa quella del motore Orpheus, sotto licenza della Bristol, come aveva già fatto la FIAT. Per alcuni anni si stabilì una collaborazione tra industrie italiane e tedesche che si sviluppò gradatamente anche nel campo dei numerosi accessori del velivolo e dei motori.
L'Aeronautica tedesca fu dotata di ben trecentocinquanta G.91, nelle varie versioni: tra queste il G.91T biposto per scuola e allenamento. Infatti, subito dopo il completamento dei primi ventisette velivoli della preserie, avviammo il progetto del G.9i biposto, derivato dal monoposto con le necessarie varianti, ma del quale conservava in comune moltissime parti. Il G.91T e il G.9i sono ancora in servizio in Italia e in Germania, e non sono mancate le celebrazioni ricorrenti nei due paesi per festeggiare scadenze e date riguardanti funzioni operative come il felice compimento dei vent'anni di attività dei due tipi di velivoli.
Mentre la produzione si allargava cresceva anche la famiglia del G.91 cui si aggiunse il G.91 della PAN, la pattuglia acrobatica nazionale, che in tutto il mondo ha guadagnato prestigio e onore all'Italia con l'ardimento e l'altissima qualità dei suoi piloti. I G.9i della PAN vennero presi fra i ventisette della preserie, opportunamente modificati. Si erano tolti gli accessori operativi, quali l'armamento e l'impianto fotografico e si era installato l'impianto fumogeno. Si ebbe così un alleggerimento del velivolo a vantaggio delle sue prestazioni acrobatiche.
Gli Stati Uniti, che avevano seguito con particolare interesse la realizzazione di questo primo aeroplano NATO ed erano attenti a tutte le fasi della sua evoluzione, ci furono larghi di aiuti, quando avemmo bisogno di ricorrere alle loro attrezzature sperimentali. Fra queste la prova più significativa e importante fu quella del comportamento di tutte le apparecchiature del velivolo in funzionamento dentro una grande camera di climatizzazione vicino a Baltimora.
Su loro richiesta un G.91 fu inviato oltreoceano per essere sottoposto alle severe prove prescritte dai regolamenti in uso negli Stati Uniti. Le autorità militari americane avevano chiesto di provare l'apparecchio per un approfondito esame, in paragone ai loro aeroplani dello stesso tipo, ma più vecchi, più grossi e pesanti, che erano già in servizio da qualche tempo.
Il nostro ministero della difesa accondiscese e ci invitò ad inviare in America un G.91 con un nostro pilota collaudatore nella segreta speranza di un eventuale sbocco commerciale negli Stati Uniti.
Bignamini, che si era completamente rimesso dall'incidente di Caselle, era la persona più adatta per una simile missione. Parlava perfettamente l'inglese ed era conosciuto e stimato dai piloti collaudatori americani. Per giunta ambiva a questo incarico. Un grosso aeroplano da carico americano venne a prelevare a Torino un G.9i opportunamente smontato e munito di tutte le parti di ricambio. Sullo stesso apparecchio si imbarcò un gruppo di tecnici del campo volo, con a capo l'ingegner De Cristofaro, che dovevano svolgere il lavoro di assistenza.
Iniziarono così le dure prove americane che si svolsero in varie regioni, sempre in comparazione con gli aerei statunitensi, quale l'AD-4 della Lockheed. Le diverse località venivano scelte a seconda delle missioni da compiere, comprendenti anche voli in zone torride e su terreni sabbiosi.
I rapporti tecnici che ricevevo e le lettere che Bignamini costantemente mi inviava mostravano il suo entusiasmo e quello del piccolo gruppo di uomini che lo seguiva e che non tralasciava alcunché per rendere più brillanti le qualità del nostro aereo.
La possibilità che il G.91 potesse essere acquistato dagli Stati Uniti o riprodotto su licenza, non costituiva soltanto una meta ambiziosa per la FIAT, ma aveva interessato anche vari ambienti industriali statunitensi. Ce n'era giunta qualche eco, ma non osavamo essere ottimisti anche se i fatti ci inducevano alle speranze, perché il G.91, nel suo genere, era un aeroplano che si differenziava da tutti gli altri. Gli stessi aeroplani americani che facevano le prove in concorrenza con il velivolo italiano, erano nati prima su concetti di impiego simili, ma un po' esuberanti rispetto agli scopi indicati dalla NATO.
Intanto era maturata l'idea di munire il G.91 di razzi per l'accelerazione del decollo. I razzi erano impiegati in America anche su grossi velivoli e quindi sembrò logico e opportuno applicarli anche a velivoli leggeri come il G.9i, per accorciarne ulteriormente la lunghezza di decollo.
Tali razzi di varia dimensione erano denominati JATO (Jet Assisted Take 0ff). Erano stati ideati da von Kàrmàn durante la guerra e venivano prodotti da una società fondata dallo stesso Kàrmàn con Frank Malina (l'Aerojet-Engineering Corporation che divenne più tardi Aerojet General-Corporation) con sede ad Azusa in California.
Dopo la guerra, con la partecipazione della FIAT — utilizzando lo stabilimento di Colleferro, di proprietà del commendator Stacchini — fu creata una società per la produzione degli JATO anche in Italia, perché il nostro ministero era interessato a questo nuovo tipo di razzo a propellente solido.
Mettemmo quindi in progetto, su richiesta delle nostre autorità militari, l'applicazione degli JATO sui G.91; fu creata un'apposita piastra portarazzi, che veniva opportunamente disposta sulla pancia della fusoliera, in modo che i razzi convergessero la loro spinta sul baricentro del velivolo, per evitare qualsiasi azione di disturbo dell'equilibrio della macchina. Le piccole dimensioni del velivolo avevano richiesto la costruzione di adatti ugelli di scarico opportunamente orientati. Per le prove a terra avevamo installato un impianto speciale nelle officine sperimentali del Sangone e avevamo potuto assodare che l'orientamento della spinta dei razzi seguiva esattamente quello della geometria degli ugelli.
Mentre Bignamini stava per concludere la sua missione americana noi avevamo in corso (e lui lo sapeva bene) le prove di decollo del G.91 munito di due JATO. Bignamini, dall'America, insisteva perché gli fosse consentito — a coronamento delle sue prove — di presentare il decollo con i razzi.
Ero contrario, perché egli non aveva potuto evidentemente seguire le prove che facevamo a Torino e mi sembrava inopportuna una dimostrazione così nuova, anche se l'abilità del pilota era al di sopra di ogni pretesa. L'effetto degli JATO nel decollo era spettacolare. Il ministero ci invitò a passare alle prove con quattro JATO. Allora risposi a Bignamini che non avrei mai acconsentito al suo desiderio se prima non fossero stati esauriti i test a Torino. Accelerammo le prove di decollo coi razzi e avemmo la conferma che non c'erano difficoltà per i nostri piloti. Avevo anche chiesto un loro parere sull'operazione. Mi rassicurarono affermando che non c'era nulla da temere. L'entusiasmo di Bignamini ci aveva contagiati e fu deciso di accontentarlo. Spedimmo in America le piastre di supporto, i razzi e le istruzioni per adattare il velivolo alla nuova installazione.
A conclusione delle sue operazioni Bignamini doveva mostrare il decollo del G.91 con l'ausilio di quattro razzi. Compiuta questa prova avrebbe dovuto essere accompagnato in un vicino aeroporto civile per imbarcarsi e tornare in Italia. All'atto finale della sua splendida missione, quel giorno sul campo di Fort Rucker (Alabama) oltre agli addetti erano convenuti dalle vicine basi aeree numerosi altri ufficiali piloti, amici di Bignamini. Volevano salutarlo e festeggiarlo prima della sua partenza. Quel saluto non ci fu. L'aeroplano decollò rapidissimo, Bignamini sganciò, come doveva, la piastra dei razzi esauriti, ma non appena si staccò dal suolo assunse una rampa di salita troppo ripida ed entrò in stallo.
Tutto era avvenuto così fulmineamente che il pilota non ebbe il tempo di lanciarsi col seggiolino eiettabile e il velivolo si schiantò al suolo. Era il 27 luglio 1961.
Mi trovavo a Oslo per una delle annuali riunioni dell'AGARD; la notte versò le tre fui svegliato da una telefonata del dottor Raffagni da Torino. Seppi così della sciagura. Mi precipitai all'aeroporto e presi il primo aereo per l'Italia. A Milano erano ad attendermi i miei più stretti collaboratori e i piloti. Ci mettemmo subito al lavoro per capire le cause di quanto era successo.
L'aeroplano era un G.91 R3 preso dalla linea di produzione tedesca e volava a pieno carico di combustibile con due bombe da 500 libbre. Il pilota aveva acceso gli JATO circa sette secondi dopo il rilascio dei freni.
Dalle nostre indagini emerse che all'atto dell'accensione dei razzi il velivolo aveva assunto un assetto corrispondente al contatto del pattino di coda con il suolo, circa 11 gradi. Il pilota non aveva percepito la tendenza del velivolo a cabrare, in quanto questo poggiava sul pattino; Bignamini non se ne era accorto per il rumore dei razzi e infatti non agì sull'equilibratore per contrastare gli effetti negativi. All'atto del distacco un momento instabilizzante pose il velivolo in un assetto e su una rampa critica, nella quale l'azione di correzione longitudinale non poteva agire.
La salma di Bignamini giunse a Caselle per via aerea il 2 agosto e con tutti gli onori militari fu inumata nel cimitero di Torino. Il professor Valletta volle ospitarla temporaneamente nella sua tomba di famiglia, in attesa che fosse tumulata nella cappella che la FIAT fece costruire adornandola col simulacro di una semiala del G.91.
Il mio dolore per la tragica perdita di Bignamini fu atroce. Oltre che un eccezionale collaudatore e collaboratore era per me un amico di grande statura morale e intellettuale. Profondo fu anche il lutto di tutta l'aviazione italiana che aveva avuto in Bignamini il più raro esempio di felice connubio tra il pilota e l'uomo di scienza. Alla sua memoria venne conferita la medaglia d'oro al valore aeronautico.
Nel giugno 1959 nell'ambito della NATO fu organizzata dalla nostra Aeronautica militare un'esercitazione di prove tattiche operative del G.91 che si svolse prendendo come base alcuni aeroporti del Veneto, tra cui Rivolto Pisano e la zona erbosa del poligono di Maniago. Le esercitazioni affidate al io3° Gruppo, comandato dal tenente colonnello Ferrero, comprendevano l'intero sistema che andava dai rifornimenti al trasporto di uomini e materiali da una base all'altra e dei relativi servizi compresi quelli delle cucine da campo e di mascheramento delle basi.
L'incarico di rilevare i tempi necessari alle varie operazioni venne affidato a un istituto dell'università di Roma con la collaborazione del colonnello Driscoll dell'USAF, per ricavare gli elementi necessari a impostare uno studio secondo i metodi di una ricerca operativa.
Durante le prove una mostra statica dell'aeroplano con tutti gli accessori di servizio, inerenti alle missioni di impiego, fu approntata sulla pista dell'aeroporto di Rivolto. Le prove a fuoco al poligono di Maniago si conclusero con mitragliamenti e sgancio di bombe normali e al napalm. Alla fase finale assistettero le più alte autorità militari delle nazioni appartenenti alla NATO.
Tutti furono larghi di elogi e di riconoscimenti per il grado di preparazione di tutto il personale addetto: piloti e specialisti di terra. Alla fine delle esercitazioni fu tenuto un rapporto nel quale fu positivamente valutato il risultato dell'intera esercitazione e fu confermata la validità della formula del nostro aeroplano da caccia tattico.
A una di tali riunioni fui invitato ad assistere anch'io perché potessi prendere diretta conoscenza delle conclusioni. Emerse in modo chiaro che l'intero sistema aeronautico italiano presentava una grossa lacuna: la mancanza di un aereo capace di trasportare da una base all'altra gli uomini, le attrezzature, i servizi e i ricambi necessari per assicurare l'assistenza a terra nel senso più ampio della parola. Si trattava, insomma, di disporre di appositi velivoli da carico in grado di trasportare le attrezzature; le armi e le munizioni; le officine di riparazione; i servizi e il vettovagliamento, onde evitare di dover ricorrere al trasporto via terra, vulnerabile e troppo lento.
Un simile velivolo doveva avere la capacità di decollare e di atterrare in piccoli spazi e su terreni semipreparati quali erano quelli su cui operava il G.91. A quell'epoca nessun aereo da trasporto era capace di soddisfare simili richieste. Qualcuno dei presenti ventilò anche l'idea che tale aeroplano dovesse avere capacità di VTOL (Vertical Take 0ff and Landing). Fu chiesto il mio parere sulle possibilità di realizzare una tale macchina e risposi che la cosa era possibile a breve termine nella forma STOL (Short Take 0ff and Landing) mentre la formula VTOL avrebbe richiesto tempi di progettazione e realizzazione molto lunghi.
In quegli anni in Francia, in Inghilterra, e soprattutto in America gli studi e le realizzazioni sperimentali di velivoli VTOL erano molto di moda. Già nel 1959 in tutto il mondo, nelle forme più disparate, erano stati realizzati una quindicina di prototipi e venivano dedicate somme notevoli a questo settore.
La NATO pensava di bandire un concorso per la realizzazione di un caccia VTOL e in tale prospettiva alcuni degli interlocutori puntavano nel trasporto tattico più alla formula VTOL che a quella STOL.
A seguito di queste discussioni la nostra aeronautica chiese di approfondire il problema del trasporto tattico ed io cominciai a pensare all'aeroplano che poi divenne il G 222.
Intanto, mentre il G.91 affermava la sua validità, negli ambienti NATO prese corpo l'idea di preparare un successore, avente maggiore velocità, più elevato carico militare e più autonomia. Era perciò necessario un motore di maggiore potenza dell'Orpheus. La Bristol aveva messo allo studio un nuovo propulsore: l'Orpheus 12 capace di una spinta di 6.000 libbre.
Basandoci su quel motore di cui ci furono forniti i disegni di massima iniziammo gli studi per un nuovo G.91. Ma dopo molti tentennamenti la Bristol rinunciò al suo proposito di passare alla realizzazione dell'0rpheus 12 e fummo quindi costretti e ricorrere a un'altra soluzione.
Negli Stati Uniti, a cura della Northrop, era uscito il bimotore F5 che, pur non possedendo le capacità operative del G.91 su terreni semipreparati, tuttavia assolveva ai compiti e alle operazioni di attacco al suolo con margini maggiori, data la sua più elevata potenza. Si deve aggiungere che l'F.5 era un bimotore e perciò, in qualche modo, acquistava un ruolo importante per il fattore di sicurezza.
Su questo punto la Northrop insisteva con la sua propaganda, che anche certa stampa italiana riprese e popolarizzò. In generale i piloti non davano importanza al fatto e non ci era mai venuta una richiesta specifica sulla formula bimotore. Comunque volendo accrescere le capacità operative del G.91 e non disponendo di un propulsore di maggior spinta di quelli disponibili, pensai anch'io di adottare questa formula.
Scelsi due motori Generai Electric j 85, che complessivamente davano una spinta di 7.000 libbre. Partendo dal concetto di utilizzare il maggior numero possibile di parti del G.91, per evidenti ragioni pratiche e di costo, lasciai inalterata la presa d'aria unica, ma la biforcai a forma di ipsilon per alimentare i due motori paralleli.
Quando presentai il progetto di massima del G.91Y al Ministero della difesa, esaltai il fatto che si trattava di una variante poco costosa e non di un velivolo completamente nuovo. Dopo lunghe trattative le autorità governative decisero di ordinare un prototipo e passammo allo sviluppo e alla costruzione del velivolo.
Nella stesura del progetto fui trascinato a includervi importanti novità strutturali, soprattutto nelle ali. Si ebbe insomma la realizzazione di una macchina moderna, tecnologicamente avanzata, che ricevette il battesimo dell'aria il 27 dicembre 1966.
Per l'aeronautica militare italiana ne furono costruiti cinquanta esemplari che sono tuttora in servizio.
Al G.91Y è legato un episodio che è indice di un tipico atteggiamento dell'industria americana. Durante lo svolgimento del progetto chiesi alla Generai Electric di esaminare e di approvare tutti gli schemi di installazione del motore, come era richiesto per consuetudine dalla nostra aeronautica militare e che tutti i fabbricanti di motori dovevano soddisfare. La Generai Electric si rifiutò, in quanto, diceva, la sua responsabilità doveva intendersi limitata alle prestazioni del motore, isolato dal resto.
La questione aveva un carattere più formale che altro e solo quando minacciai che il rifiuto poteva portarci alla scelta di un altro propulsore, l'azienda americana accondiscese a soddisfare le nostre richieste. La cosa non era importante in sé, ma denota un atteggiamento incomprensibile da parte del fornitore di un organo così importante e la cui integrazione sul velivolo può avere notevoli riflessi sullo stesso sistema propulsivo. La sua installazione non può pertanto non essere esaminata a fondo anche da chi fornisce il motore.
Questo rigido sistema di lavorare a compartimenti stagni può andar bene per una grande serie, ma per prototipi così delicati e complessi quali sono i velivoli, la collaborazione fra i costruttori di aerei e quelli che fabbricano i motori deve essere garantita sino in fondo anche negli aspetti più formali. A tali concetti si sono sempre ispirati gli inglesi, i quali come creatori di motori non sono secondi a nessuno, e non hanno mai mancato di assumersi i problemi dell'integrazione, fino a derivarne formule che hanno avuto grande successo. Secondo me l'atteggiamento specialistico delle aziende americane, talvolta è stato causa di non pochi inconvenienti nella messa a punto dei prototipi.
Con l'inizio degli anni '60 l'attività delle aziende aeronautiche ebbe un forte sviluppo. Il fatturato era in aumento e l'esportazione verso l'estero era percentualmente cresciuta soprattutto nel settore militare. Nuovi accordi di cooperazione internazionale venivano conclusi, mentre fiorivano ulteriori iniziative e progetti.
L'associazione dei costruttori aerospaziali ottenne di istituire un Salone internazionale dell'aeronautica biennale in alternativa col Salone di Le Bourget, da tenersi a Torino, da tutti riconosciuta come la sede più appropriata. L'esposizione del materiale ebbe luogo nel Salone dell'automobile al Valentino e al campo di Caselle.
Il primo salone fu inaugurato il 6 giugno 1966 alla presenza dell'onorevole Andreotti, allora ministro della difesa, del capo di Stato maggiore dell'Aeronautica, Remondino, e di numerose autorità italiane e straniere.
Il presidente del salone, ingegner Nasi, iniziò il suo discorso così: "Questo salone internazionale dell'aeronautica e delle attrezzature aeroportuali nasce sotto l'insegna ambiziosa di `Ali nel mondo a Torino'.., un impegno di ricreare a Torino un centro di diffusione e di integrazione del progresso aeronautico nel mondo".
Andreotti, allora ministro, a sua volta disse: "Trecento espositori appartenenti a dodici nazioni mi pare che bastino per diré che la manifestazione che ora si inaugura ha avuto un apporto considerevole e ha raggiunto in partenza un vivo successo... Noi possiamo avere la gioia di considerare l'aeronautica non solo come una gloria del passato, ma come una operosa realtà vivente... Vediamo attraverso questi cinquanta miliardi di valore di produzione di materiale aeronautico, attraverso una discreta esportazione (trentun miliardi di valore nell'ultimo anno), un'affermazione di grande importanza di nostri tipi di aerei e qui voglio citare quello che certamente ci ha dato più fulgore, il G.91 che, facendoci vincere una gara internazionale, una gara della NATO, ha fatto non solo del bene a un'industria e a un complesso di industrie, ma ha fatto del gran bene al nostro paese... Professor Gabrielli, lei forse non avrà la notorietà di qualche divo o qualche grande campione sportivo, ma credo che lei possa avere nella sua coscienza la sicurezza di aver reso e di rendere un grande servizio alla dignità della nostra patria".
Torino visse sette giornate di intensa attività aviatoria: fra l'altro fu inaugurato un cippo a ricordo del vecchio campo di Mirafiori. Con un appassionato discorso del generale Urbani, presidente nazionale dell'Associazione arma aeronautica, fu rievocata la storia di quel campo, che in ordine di tempo era stato il secondo costruito in Italia, nel 1910, dopo quello romano di Centocelle. Una targa di bronzo fu apposta sui ruderi della torre comando del campo di Mirafiori con le date 1910-1945.
Fu anche inaugurato al cimitero di Torino il mausoleo degli aviatori caduti: un grande monumento dovuto all'architetto, professor Quaglino.
Ebbero luogo numerose altre manifestazioni tra cui un raduno dei piloti italiani e inglesi che avevano preso parte alle varie edizioni della Coppa Schneider dal 1913 al 1931. Era presente il comandante della scuola alta velocità di Desenzano, generale Bernasconi. Ebbe anche luogo il "Giro dei Castelli Piemontesi" per aeroplani da turismo, organizzato dall'Aero Club di Torino con la regia perfetta di Piero Casana.
La settimana aviatoria si concluse con la festa dell’aria al campo di Caselle con la travolgente fumata della pattuglia acrobatica italiana.
"Volare è ben più di uno sport e di un mestiere.
Volare è passione e vocazione, che riempie di sè una vita."
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    Re: Giuseppe Gabrielli

    Messaggio da i-daxi » 14 luglio 2009, 16:14

    Molto volentieri e molto interessante anche il tuo contributo.

    Mi fà molto piacere e grazie a te! :) :) :)

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    Re: Giuseppe Gabrielli

    Messaggio da i-daxi » 14 luglio 2009, 16:19

    Tre video della.....bestia!
    :) :)





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    Re: Giuseppe Gabrielli

    Messaggio da i-daxi » 14 luglio 2009, 16:56

    Fiat G-46:



    Fiat G-59:





    Fiat G-55:



    Un articolo:

    http://www.aerei-italiani.net/legno_ferro.htm

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