
Da Coca inizia il vero viaggio per addentrarsi nella foresta e comincio a rendermi conto di che cosa sia l’Amazzonia. Non ci sono strade per la nostra destinazione: ci imbarchiamo per discendere circa 100 km lungo il Rio Napo. Appena la lancia prende velocità mi guardo attorno e mi chiedo se troverò mai le parole per descrivere l’immensità di questo mondo d’acqua: negli anni scorsi ho visto il Nilo, il Volga, lo Zambesi… ma nessuno m’ha impressionata come questo che è solo uno degli affluenti del Rio delle Amazzoni!



Di tanto in tanto ci illudiamo di essere a destinazione perché puntiamo dritti verso una riva, per poi virare rapidamente e tornare verso quella opposta; ci sono evidentemente tratti insidiosi, ben noti ai nostri accompagnatori che li evitano senza esitazioni.

Avvicinandoci alle rive possiamo già osservare l’eccezionale varietà che caratterizza l’Amazzonia: non c’è una specie preponderante, come avviene nei boschi nostrani, al contrario è difficile trovare vicini due alberi dello stesso tipo.

Qua e là si nota una capanna di legno con uno scosceso accesso al fiume ed una piroga legata ad un ramo: una presenza umana discreta tra una vegetazione tanto rigogliosa che sembra volerla inghiottire. In un punto invece l’insediamento è una ferita nella foresta: un angolo di terra nuda sulla quale sono sparsi prefabbricati di lamiera, tralicci, ruspe; sotto, qualche chiatta. I nativi sono combattuti tra la difesa della loro terra e le lusinghe di una vita più “moderna”; alcuni sono diventati operai delle multinazionali del petrolio, altri resistono. Di fronte all’avamposto di una “civiltà” ansiosa di strappare risorse al territorio ho la fotocamera in mano, ma non la forza di scattare. L’esuberanza della vegetazione continua a scorrermi sotto gli occhi e la mente si distoglie volentieri.
Dopo un paio d’ore veniamo sbarcati su un pontile il cui aspetto precario è confermato dall’invito a non sostarci sopra in più di due per volta. Da lì per un quarto d’ora camminiamo su una passerella di bambù –il terreno è fangoso– inoltrandoci nella foresta fino ad un altro corso d’acqua molto più piccolo e tranquillo del Rio Napo. All’estremità della passerella ci attendono alcune piroghe scavate in tronchi d’albero, il modo più efficace per muoversi nell’intrico di fiumiciattoli.
Nel loro aspetto primitivo, sono mezzi del tutto estranei alla nostra esperienza: tutt’al più ne abbiamo provato un’imitazione di plastica montata su binari a Gardaland


Ne serve più di una per trasportarci tutti. Una volta sistemati gli imbranati passeggeri, un nativo si mette a poppa con la pagaia. La piroga oscilla appena e comincia ad avanzare. Ad una nuotatrice da Mar Morto come me piace assai poco quell’acqua torbida sotto la cui superficie non si vede nulla ma c’è di tutto: tronchi caduti, radici, vegetazione acquatica, fango (per non parlare della fauna). E tuttavia sono incantata: per venti minuti scivoliamo placidamente – in sottofondo soltanto i richiami degli animali ed il lento tuffarsi della pagaia– e vediamo la foresta da sotto in su: gli alberi gareggiano in altezza –davanti al nostro naso soltanto le enormi radici– e sotto la volta verde altre specie si disputano la luce.


In qualche punto il verde quasi si chiude sopra di noi. Infine sbuchiamo in un piccolo lago; nei miei pensieri con l’ampiezza crescono anche la profondità e la preoccupazione, ma anche la meraviglia: è un piccolo paradiso lontano dal mondo, dal chiasso, da tutto. Sulla riva opposta si intravede la sommità di un tetto di paglia e, avvicinandosi, un piccolo pontile; siamo arrivati.

Sotto il la copertura conica del bar incontriamo le guide che ci accompagneranno, divisi in due gruppi, e riceviamo un paio di stivali di gomma senza i quali è impensabile allontanarsi dalle passerelle del lodge


I mio gruppo è guidato da Amanda, prossima alla laurea in biologia, che ci avverte di essere un tantino acciaccata perché il giorno prima la vista di un’anaconda nel lago le ha ispirato un movimento brusco (e figuriamoci se dovessimo vederla noi






Nell’escursione del pomeriggio noi del gruppo di Amanda ci dedichiamo alla “torre”, struttura che porta a 40 metri d’altezza tra la chioma di un kapok. Ci addentriamo nella foresta a piedi. Anche se sono soltanto le 4 del pomeriggio, si cammina in penombra: solo una piccola parte della luce filtra fino a terra. Non a caso, alcune delle specie vegetali che ci troviamo davanti hanno un aspetto familiare: sono le nostre piante da appartamento, abituate a non vedere mai il sole! Queste sono le enormi radici dell’albero e la torre:


La salita non fa impressione, perché essendo circondati dal fogliame non si ha mai la sensazione del vuoto. È invece molto interessante vedere come ogni “piano” della foresta sia colonizzato da diverse specie: alcune piante per esempio crescono molto distanti da terra, tra i rami del kapok:

Raoul punta il cannocchiale per farci osservare qualche tucano ma io sono entusiasta anche del panorama nell’insieme: una distesa di chiome di vario tipo.


Dopo cena, al bar, i giovincelli americani sfruttano l’ultima ora di luce elettrica –il generatore funziona fino alle 10– per scaricare le foto sui pc, catalogarle, spulciare manuali di ornitologia e prendere paginate di appunti… mentre noi ci limitiamo a rievocare le “fatiche” della giornata

Dopo aver sigillato accuratamente la zanzariera nella speranza di ridurre la quantità di ragni ed insetti che passeggeranno sul mio letto, mi sdraio immaginando la quiete della mia camera. Ma appena spenta la luce mi tornano in mente le parole di Angelo nella sua introduzione al posto: “la foresta è viva, anche di notte”. Eccome, se è viva! I richiami degli animali si alternano, si ripetono, si rincorrono: un concerto incessante. Così come di giorno, anche con il buio non c’è un attimo di silenzio ed ora che le nostre chiacchiere sono cessate, la voce della foresta giunge chiara nella capanna. L’immensa varietà che il mondo vegetale ha messo sotto i nostri occhi, la fauna ce la rammenta nei suoni. Avverto attorno a me un’esplosione di vita: nei nidi, nelle tane, sui rami, nell’acqua nulla sta dormendo. È così sorprendente la voce della foresta, l’ascolterei tutta la notte. E invece col fresco della sera e la più bella ninna nanna mai sentita, mi addormento quasi subito.
Solo qualche ora dopo mi sveglio sentendo voci e passi presso la capanna. Non posso giurarci perché non li ho visti, ma credo che gli americani abbiano fatto anche un’escursione in notturna


La mattina seguente, escursione in parte a piedi e in parte con le piroghe. Lungo il percorso Amanda ci illustra caratteristiche e curiosità delle specie vegetali che incontriamo e ci mostra, catturandoli e poi posandoli amorevolmente dove stavano, minuscole rane e millepiedi giganti.

Nelle sue parole ogni pianta si distingue per qualche caratteristica speciale ed ha una precisa utilità per i nativi: non si coltiva nulla qui, ma la foresta offre di tutto. La competizione per la luce è così importante che c’è perfino una “palma che cammina” mettendo nuove radici nella direzione più favorevole per spostare la propria base d’appoggio. Non mancano ovviamente le famose liane…

Quando giungiamo alle piroghe ci sentiamo un tantino meno impacciati del giorno precedente. A me capita una posizione privilegiata, a prua, e comincio a godermi davvero l’incanto.



Alcuni passaggi sono stretti o addirittura ostruiti, e devono essere aperti a colpi di machete.


Ad un certo punto la piroga davanti a noi si incaglia su un tronco sommerso e tentando di aiutare a smuoverla due persone finiscono in acqua.


L’escursione del pomeriggio ci porta alla “casa delle farfalle”, dove passiamo il tempo a ricorrere la dispettosa “blu” che appena posata chiude le ali e diventa grigiastra


Stavolta rientriamo anzitempo perché nubi nere si addensano e noi ci agitiamo, immaginandoci travolti dalla tempesta; Raoul rema lesto per riportarci al lodge. Solo qualche goccia increspa l’acqua placida del laghetto quando approdiamo al pontile, con l’aria di aver scampato chissà quale pericolo. Una buona ora dopo, mentre mi dondolo nell’amaca sotto il portico della mia capanna ascoltando la pesante pioggia equatoriale, sfilano gli americani di ritorno dalla loro escursione nella foresta: incuranti dell’acqua che scorre a rivoli dalle teste fin dentro gli stivali, si preoccupano soltanto di proteggere le attrezzature fotografiche.
Dopo cena la pioggia cessa. La proposta di un ultimo giro in piroga alla ricerca dei caimani mi spaventa per via del buio, che ai miei occhi rende le acque ancora più insidiose; tuttavia non me la voglio perdere. Sono intimorita ad ogni piccola oscillazione e al tempo stesso incantata: sotto la luna il laghetto sembra uno specchio e la cornice nera e compatta della vegetazione racchiude tutto il nostro mondo.
Una notte chiara non è l’ideale per trovare i “timidi” caimani (come dice Amanda

Durante la notte la pioggia riprende abbondante per graziarci di nuovo la mattina successiva, quando riprendiamo le piroghe per lasciare la foresta. Le precipitazioni devono essere state particolarmente abbondanti in tutta la regione: il Rio Napo ha cambiato faccia, la corrente ha trascinato rami e tronchi dovunque, e la risalita verso Coca è più difficoltosa del viaggio di due giorni prima. La lancia rallenta spesso ed i nostri accompagnatori scrutano le increspature della superficie per scegliere la via. Ci vogliono poco meno di tre ore per arrivare alla città, dove ci attende un pullman.
Appena salita su un mezzo più familiare mando un sms a casa, con un sospiro di sollievo. La foresta impiega qualche giorno a trovare il suo posto nell’anima; poi diventa una ricordo intenso, prezioso. La soddisfazione di esserci andata in prima persona, toccando con mano qualcosa che è difficile da immaginare e raccontare.
Ma i pericoli della giornata non sono finiti…
[continua…]