28 Agosto 2018, è il giorno del rientro in Patria.
Il sole è già sufficientemente alto in cielo pur essendo ancora le 6:30L circa; il completamento del check-out mi conduce a calpestare per l’ultima volta il suolo del centro Kazan, in attesa di sperimentare Yandex Taxi (l’Uber russa).
L’auto prevista arriva in una manciata di minuti e, una volta salito a bordo, la partenza si fa parzialmente promettente: la vettura non è tenuta come una reliquia ma il conducente non sembra essere uno sprovveduto, ha una guida sportiva – non come la mia, ndr – e non incerta, si viaggia bene per le ampie vie della città
Meno bella è la piega presa una volta che iniziamo a percorrere le strade a scorrimento veloce: inizio a vedermi la vita davanti; no, non si mette ad accelerare come un dragster, né tiene velocità supersoniche… molto peggio: ogni tanto il driver avverte la necessità di schiaffeggiarsi in faccia perché fa fatica a tenere gli occhi aperti. Assonnato, fatto o entrambe le cose? Non sono desideroso di saperlo, posso aiutare nello schiaffeggiamento ma non sono in grado di dirglielo in russo e quindi nulla; istintivamente cambio modalità di seduta: avanzo il busto un po’ e tengo un piede puntato nel caso dovessi darmi una spinta in avanti per tentare alla disperata di tirare il freno a meno mentre usciamo di strada. 🙄
Se mi state leggendo non vi sarà difficile intuire come sia andata a finire…
Giungo in aeroporto e pago l’amico parzialmente nelle braccia di Morfeo, spero che abbia trovato una piazzola e si sia eclissato per un paio d’ore per il bene suo e degli altri. E’ comunque abbastanza vispo da tenersi il resto, ma erano veramente spiccioli e non mi sembra il caso di obiettare.
Arrivando di notte pochi giorni prima non mi ero accorto di quanto l’Aeroporto Internazionale di Kazan fosse abbastanza miniaturizzato, me ne rendo conto solo ora che entro e che cerco un check-in distante da me forse 20 passi: è deserto di passeggeri ma ci sono due crew, per cui preparo tutto ciò che devo e mi appropinquo ad uno dei due desk. Si avvera quello che, prima di ogni viaggio, mi impone di non sgarrare rispetto ai regolamenti dei vettori: lo zaino pieno di apparecchiatura fotografica mi viene fatto posizionare nel sizer per misurare se rispetta le dimensioni previste, e fortunatamente così è. Tiro un sospiro di sollievo e lancio un virtuale “te l’avevo detto” a Salvatore (il mio Virgilio di Malpensa, ricordate?), che in brughiera mi aveva chiesto “ha due macchine fotografiche?” e si era sentito rispondere “alla fine ne ho portata solo una più le ottiche, altrimenti avrei sforato dimensioni e peso”. L’espressione ritornatami aveva il significato di “figurati se fanno storie, sanno che sei in giro anche per Aeroflot!”. Ecco, appunto!
Il check-in è sempre la fase che più mi genera ansia proprio per la zavorra che mi porto come bagaglio a mano, e il superamento di quella fase è per me sempre un gran motivo di ritrovato relax. Posso andare in area airside…
Non ho una specifica autorizzazione per far foto in aeroporto a Kazan, e comunque non c’è niente di particolare da riprendere; ho tempo per una colazione da Costa Coffee e ho la malsana idea di ordinare un cappuccino “medium size”: scopro che corrisponde più o meno ad un acquedotto di un centro abitato di medie dimensioni, una sbobba indescrivibile.
Finita la colazione salgo al primo piano, area gate 8 e 9, e cerco di starmene lontano dalle vetrate per non aver la tentazione di far foto… ma quando su Flightradar vedo arrivare il mio Sukhoino non mi trattengo più.
Bellino lui, e stavolta col cavolo che mi scappi!
Con calma arriva il momento di salire a bordo, lasciare il mio logbook alla prima assistente di volo incrociata e andare al mio posto; lo raggiungo, tengo con me l’apparechiatura fotografica e mi accomodo al mio 16Alpha (anche gli scarichi degli APU sanno che Alpha è sempre finestrino)
E ci risiamo con gli imprevisti: il mio vicino di posto, un omone di tonnellaggio notevole e apparentemente poco amichevole, mi farfuglia qualcosa nella sua lingua madre: non capisco una mazza! E allora brandisce la sua carta d’imbarco mostrandomi il 16Charlie e indicando il mio posto. Eh no, zio, anzi: NIET! mi sporgo quanto più possibile senza alzarmi e indico la figura che c’è sulla cappelliera: A ha accanto il finestrino, C ha accanto l’omino: quindi, o le persone camminano fuori dall’aereo oppure il tuo è il posto corridoio. Non è convinto, ma si siede e penso di aver ristabilito ciò che è giusto… almeno fino al passaggio del primo cabin crew, a cui il dispettoso passeggero rivolge la domanda sperando che nel frattempo l’aviazione abbia ribaltato ciò che finora è stato: l’assistente di volo, con ampio cenno del braccio (lo stesso che si usa per indicare il sentiero luminoso durante le demo di sicurezza), gli dice una volta per tutte che lui guarderà fuori dal finestrino un’altra volta. Sorry. Al 16Delta c’è un membro del team di Ivanoff, non può far altro che sghignazzare.
E da lì cambia tutto: il mio vicino, all’inizio così aggressivo, in un’ora e briscola di volo riuscirà persino a sorridere un paio di volte, ad accennare una frase in inglese e ad offrirmi metà del suo secondo panino; ci stringiamo persino la mano in fase di sbarco. Il potere del Sukhoi Superjet 100-95B!
Faccio persino il video in decollo e atterraggio…
Il volo mi fa amare l’SSJ100: non so se è merito suo, del meteo o del pilot flying, fatto sta che ogni input dato all’elevator mi dà delle sensazioni nette che con altre macchine si avvertono di rado. Mi piace!
Oltre metà volo la responsabile di cabina viene da me e mi consegna il logbook scusandosi perché l’equipaggio di condotta non aveva inserito i propri nomi per motivi di privacy: figuriamoci, no problem! La collega, durante tutta la tratta, mette in pratica le consuete simpatia e cortesia degli assistenti di volo SU, ed è sempre un piacere vederli al lavoro e quando possibile scambiare due parole.
Neanche a dirlo, sbarco per ultimo, ma qui rimango spiazzato: vedo la Chief Purser, al limite del galley, che mi attende per il saluto conclusivo… ma in realtà ha un viso contrito e un’altra volta, mortificata (!), si scusa per quel logbook compilato solo al 90%. Ma ragazza mia, dov’è il problema? Alla fine mi sento in colpa io perché lei non dovrebbe scusarsi di niente, è una sensazione strana e vorrei offrirle una birretta 😀 per ritrovare il giusto equilibrio… ma è una cosa impossibile; la collega zompa giù dalle scale poco prima che io appaia, scoprirò solo dopo che era andata ad inseguire il proprietario di un paio di auricolari lasciati a bordo; anche lei era stata eccezionale, e quando si volta – dalla parte opposta rispetto al punto in cui io salgo sul Cobus, le lancio una voce di saluto che lei coglie e ricambia con un sorriso ampio come poche volte ne ho visti: riprende la scaletta e risale mentre io la seguo con lo sguardo (anche perché lei, come tante altre, non era proprio un brutto vedere); quando ormai temo di aver perso il contatto visivo la vedo riapparire dalla parte con la protezione in plastica della scala, e salutare con la mano in direzione dell’interpista: avrà salutato me, qualcun altro, il driver del Cobus o chi altri? Va beh, io rispondo con un saluto militare molto rispettoso, male che vada sarà inutile.
Ancora non ho ben memorizzato layout e posizione dei terminal B e D, per cui io do per scontato di essere al B come previsto; ma l’interpista inizia a macinare centinaia di metri, passa accanto a molti velivoli e prosegue oltre il terminal. Non me l’aspettavo e mi limito a rimirare ciò che incrociamo, ho 4 ore di transito e siamo anche in anticipo. Finché ad un certo punto mi accorgo di essere salito su un Cobus di lungo raggio: è partito dall’area sud (quindi quella dei terminal D, E e F) e ci sta portando, seguendo la perimetrale interna che si sviluppa sul lato ovest, al terminal B. Non so quale SID segua, Jeppesen non lo indica.
Arrivato a 3/4 di questo bel tour estemporaneo mi si gela il sangue, ma ho ancora la lucidità per arraffare la fotocamera dallo zaino (non avevo avuto indicazioni/autorizzazioni per queste casistiche, ero stato buono fino a questo momento):
Un pezzo di storia in fase di dismissione, lacrimano anche i finestrini.
Prosegue il tour involontario con l’interpista di lungo raggio e ormai la fotocamera è nelle mie mani, ne approfitto per un’altro paio di foto; al termine si sbarca e mi sposto al Terminal D col trenino automatico – con accesso alla Jazz Lounge, che poi è lounge Aeroflot – grazie al mio Priority Pass da dove ripartirò verso Milano.
L’arrivo al Terminal D provenendo dal trenino automatico e di fatto l’apertura su un mondo diverso: banchi Aeroflot a perdita d’occhio, area centrale molto commerciale, lato opposto di uffici e altri servizi commerciale: sopra tutti file di monitor con i dettagli dei voli.
Scatto una foto dallo spigolo del terminal, direzione random; poi mi incammino, ma il mio sguardo viene rapito da un mega modellone di Triple7 che da solo arrederebbe tutta la casa (@Aeroflot: se un giorno dovesse darvi fastidio/essere d’intralcio fatemelo sapere, lo vengo a prendere!), e ora ho solo un obiettivo: fotografarlo.
Mi avvicino alla ragazza che fa da filtro a quell’area – sono i check-in di business e priority – e chiedo se posso scattare due foto all’aereo; mi guarda strano, non capisce ma al successivo tentativo, fatto anche con l’autorizzazione di SU stampata, intuisce (forse): chiama la responsabile in turno, immagino che formuli a lei le mie richieste, le porge il mio foglio e poi rientra al suo posto; la responsabile legge e viene da me, le rispiego quello che vorrei fare: nulla più che degli scatti al modellone. Mi risponde di aspettare.
Inizia un conciliabolo al telefono a distanza da me, deve aver chiamato almeno 3 persone e quando torna mi invita a pazientare ancora, ci vorranno solo altri 5 minuti. Ne passano 10 e si palesa un addetto alla sicurezza, che mi sorveglia mentre faccio queste benedette foto; termino a ringrazio la persona, che mi sembra stupita che volessi fare solo foto all’aereo (forse era stupito che l’avessero coinvolto per una cosa del genere, mica me lo sarei potuto prendere e portare a Milano sotto un’ascella!).
E anche qui un po’ mi dispiace, alla fine ho scomodato un tot di persone per una mia voglia, non era il caso e se lo avessi saputo prima avrei evitato.
Seguono le foto a terra a SVO, compresi i modelli grande (quello di cui sopra) e piccolo (al desk della lounge):
15 minuti prima dell’imbarco dell’ultimo volo esco dalla lounge e mi avvio al gate; mi imbarco quasi per ultimo, gustandomi il più possibile i movimenti in piazzale, ed salgo sul 320 dal finger con il mio solito approccio: sorriso, saluto, “scusi un favore: potrebbe chiedere in cockpit se mi compilano questo logbook, per favore? Il mio posto è indicato sul bigliettino…”. Lo faranno, come sempre. Grazie mille.
Anche ora mi accomodo quasi in coda, saluto tutti i crewmembers e seguo pedissequamente le demo; in volo servizio regolare, cortese e sorridente come sempre; ma ho fatto il bravo finora, adesso sgarro o almeno provo: inizio a paparazzare le A/V durante il servizio – poche foto e senza essere opprimente – notando che non vengo redarguito. Buon segno. Ci riprovo un altro paio di volte, senza mai interromperle, e il massimo che ricevo è un altro sorriso: ma allora ditelo che prima vi santificano e poi vi fanno il corso da cabin crew!
Il servizio va avanti, raccolgono la rumenta e, quando manca poco all’inizio della discesa – io sono intento a fotografare le Alpi e non me ne rendo subito conto – si avvicina Svetlana, una delle A/V, e mi porge un fogliettino manoscritto con indicati due indirizzi email, il suo e quello della collega Anna. Do ut des: noi ci siamo prestate e tu ci fai avere le foto. Così sarà.
Il “problema” è che s’è sparsa la voce del paparazzo italiano per cui una volta a terra, complice anche la rampa che non aveva alcuna fretta di vedermi andar via, è finita come dimostrano gli scatti sotto. Ridere e scherzare come se ci conoscessimo da tempo è stato un plus che mai avrei potuto immaginare.
Chi vi scrive ha abbandonato l’aereo col magone, e probabilmente è meglio terminare il report proprio qui.
I ringraziamenti vanno ad Aeroflot come aggregatore di tutte le singole persone coinvolte; sono sicuro che le nostre strade – anzi, le nostre aerovie – torneranno ad incrociarsi alla prima occasione utile.
Happy landings!
(Fabrizio Ripamonti)